Quella gestita da una a.s.d. non è un’azienda? (Commento a C. App. Brescia 266/2022)
Nella sentenza 266/2022 della Corte d’Appello di Brescia una questione spesso trascurata e soprattutto una affermazione che non possiamo certo condividere
La recente sentenza 25/2/2022 n. 266 della Corte d’Appello di Brescia contiene due questioni di interesse delle associazioni sportive dilettantistiche, che ci pare opportuno segnalare.
I fatti, in sintesi
Per vicende che non ci interessano, e senza entrare nei dettagli e nella terminologia tecnica, dopo la stipula di un preliminare di cessione d’azienda da una a.s.d. a una persona fisica, quest’ultima si è rivolta al Tribunale di Cremona (e vedendo la propria richiesta respinta si è poi rivolta alla Corte d’Appello di Brescia) per chiedere l’annullamento del contratto per una serie di motivi, dei quali ci interessano i due principali, sintetizzabili come segue:
a) perché il Presidente non aveva il potere di sottoscrivere tale atto
b) perché l’attività svolta da una a.s.d. “non sarebbe stata esercitabile in forma aziendale, in quanto il soggetto gestore (l’a.s.d.) non è imprenditore”
La Corte bresciana accoglie l’appello e dichiara nullo il preliminare.
Esaminiamo separatamente le due questioni.
A) il Presidente di una a.s.d. ha il potere di stipulare un atto di cessione di azienda?
La questione ci dà modo di ribadire ancora una volta l’importanza dello statuto, sappiamo infatti che:
– l’art. 36, comma 1, del codice civile stabilisce che “L’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute come persone giuridiche sono regolati dagli accordi degli associati”
– l’art. 90, comma 18, della legge 289/2002 stabilisce che “le associazioni sportive dilettantistiche si costituiscono con atto scritto … Nello statuto devono essere espressamente previsti: … c) l’ attribuzione della rappresentanza legale dell’associazione … e) le norme sull’ordinamento interno ispirato a principi di democrazia e di uguaglianza dei diritti di tutti gli associati”
– l’art. 148, comma 8, del T.U.I.R. stabilisce che “Le disposizioni di cui ai commi 3, 5, 6 e 7 si applicano a condizione che le associazioni interessate si conformino alle seguenti clausole, da inserire nei relativi atti costitutivi o statuti redatti nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata: … e) … sovranità dell’assemblea dei soci, associati o partecipanti”.
Non conosciamo lo statuto e gli altri atti dell’associazione in questione, ma supponiamo che essa si sia conformata a tali disposizioni (o comunque tale è la situazione di pressoché tutte le a.s.d.) e quindi:
– che lo statuto sia redatto con atto scrittura privata autenticata o (più frequentemente) registrata
– che esso stabilisca la sovranità dell’assemblea e l’attribuzione della legale rappresentanza al Presidente.
Se così è, il Presidente non ha alcun potere a meno che l’Assemblea non glielo abbia specificamente conferito, e comunque l’Assemblea può aver conferito parte dei propri poteri al Presidente e/o al Consiglio Direttivo, ma non può aver conferito all’uno o all’altro organo un potere così grande quale è quello di cedere l’attività svolta e di fatto cessare di perseguire il suo scopo, perché se l’avesse fatto avrebbe abdicato al suo ruolo di “organo sovrano”.
Abbiamo voluto sottolineare tale aspetto, che viene spesso trascurato nella prassi, nella quale il Consiglio Direttivo e/o il Presidente gestiscono l’attività e l’Assemblea si limita ad approvare il rendiconto. Ciò va contro lo statuto, cui l’art. 36 c.c. demanda il potere/dovere di stabilire le regole di funzionamento delle associazioni; e più di una volta l’abbiamo visto contestare in sede di verifica fiscale, ed è una contestazione a cui non è facile opporsi.
Di conseguenza, tornando al caso che stiamo esaminando, se il Presidente ha ceduto l’attività svolta dall’associazione, senza che a monte vi fosse una specifica delibera assembleare, certamente ha compiuto un atto eccedente i suoi poteri.
Poi che da tale comportamento derivi la nullità dell’atto, che una eventuale successiva delibera assembleare possa ratificarlo, che la volontà dei soci fosse desumibile da un loro comportamento talmente chiaro da poter sostituire una formale delibera assembleare, che vi sia colpa anche da parte dell’acquirente, che non si è preoccupato di verificare se chi ha firmato l’atto avesse i poteri per farlo, e così via, sono questioni assai delicate, che non possono essere affrontate in questa sede.
Ciò che ci interessa è sottolineare che il principio della sovranità dell’assemblea, una volta che è scritto chiaramente nello statuto, deve essere rispettato, e un atto di rilevante importanza compiuto dal Presidente senza una delibera assembleare è un atto illegittimo.
Ma allora cos’è la legale rappresentanza? Cosa significa che il Presidente è il legale rappresentante dell’associazione?
Essere il legale rappresentante significa avere il potere/dovere di compiere atti giuridici impegnando l’associazione: l’associazione non può firmare un contratto, il contratto può ovviamente firmarlo solo una persona fisica, e la persona fisica che può firmare impegnando l’associazione è il suo legale rappresentante.
Egli è dunque il “portavoce” dell’associazione, e quindi dell’Assemblea ovvero del Consiglio Direttivo per quanto nei poteri di esso; ma non ha il potere di decidere autonomamente, se non all’interno dei poteri che la stessa Assemblea può (e deve) avergli conferito, e, sottolineiamo, conferito con chiarezza (p.es. “per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione”); e questi non possono essere talmente ampi da togliere all’Assembla la sua inalienabile “sovranità”.
B) Una associazione sportiva dilettantistica può assumere il ruolo di imprenditore? E quindi, quella gestita da una a.s.d. può essere un’azienda?
b/1 – Cosa c’è scritto nella sentenza – La tesi della Corte d’Appello
Mentre, come abbiamo detto qui sopra, le contestazioni sul fatto che il Presidente potesse autonomamente cedere l’azienda gestita dall’associazione sono certamente fondate (al di là del fatto, a cui abbiamo accennato, che da ciò automaticamente derivi la nullità o inefficacia di tale cessione, o no), molto diverso è il nostro giudizio su cosa la Corte d’Appello ha detto riguardo a questo secondo punto.
Nella sentenza leggiamo infatti, oltre a quanto già esaminato, ovvero che il Presidente non fosse il proprietario dell’azienda e non avesse il potere di cederla se essa fosse stata dell’associazione, e ad altri elementi che non ci paiono fondamentali per affrontare la questione che ci sta a cuore, quanto segue:
– l’appellante chiese l’annullamento del contratto perché “asserì che, in realtà, l’oggetto del contratto era inesistente, essendo – altresì – inesistente l’azienda ceduta, dal momento che l’a.s.d. operava senza scopo di lucro ed in favore dei soli soci”
– “Il Tribunale di Cremona … rigettò le domande … chiarendo gli aspetti sostanziali del negozio concretamente concluso. Il contratto preliminare di cessione di azienda evidenzia infatti la comune volontà di cedere ed acquistare una “attività di palestra” svolta grazie ad una stabile organizzazione aziendale comprensiva di: contratto di locazione (in ordine al quale venne garantito il subentro) dei vani in cui detta attività si svolgeva, mobili di arredo ed attrezzature (partitamente elencate)” inoltre “la pattuizione di cui al punto n. 4 del contratto (patto quinquennale di non concorrenza) dimostra che le parti, nella determinazione del prezzo, tennero anche conto del volume della clientela (che avrebbe potuto subire erosione da una concorrenziale attività svolta dal D.). L’insieme dei menzionati elementi palesa il comune intento (dei contraenti) di realizzare una cessione avente ad oggetto un’azienda che svolgeva attività di tipo commerciale”
– e passando ai motivi dell’appello, “l’appellante sostiene che solo dopo aver stipulato il preliminare si rese conto che non esisteva alcuna azienda …, non potendo essere considerata tale un’associazione sportiva dilettantistica”
– e inoltre “Quanto alla “clientela” della palestra, essa non era riconducibile all’appellato, essendo composta solo dai soci dell’associazione”
– la Corte d’Appello sostiene che “Le censure sono fondate” e dopo aver affrontato la questione dei (non-) poteri del Presidente afferma che “se l’attività ceduta fosse stata imputata all’a.s.d., il contratto sarebbe stato nullo, atteso che l’attività ceduta (“attività di palestra”) non sarebbe stata esercitabile in forma aziendale, in quanto il soggetto gestore (l’a.s.d.) non è imprenditore”
– nonché che “va escluso che l’a.s.d. avrebbe potuto cedere la propria attività a terzi, dal momento che detta cessione … avrebbe determinato la cessazione delle attività associative, che, viceversa, in base alle previsioni statutarie potrebbero cessare solo in virtù dello scioglimento in base ad una casistica in cui non è compresa la cessione delle attività a terzi”
Abbiamo voluto citarne ampi stralci per dare una visione più completa della tesi della Corte d’Appello, ma il nòcciolo è nell’affermazione che ripetiamo: “l’attività ceduta (“attività di palestra”) non sarebbe stata esercitabile in forma aziendale, in quanto il soggetto gestore (l’a.s.d.) non è imprenditore”: l’attività svolta da una a.s.d. non può essere qualificata “azienda”, perché una a.s.d. non è un imprenditore.
b/2 – Quali le fonti normative e i precedenti giurisprudenziali sulla questione
L’art. 2555 sempre del codice civile definisce l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”.
L’art. 2082 del codice civile definisce l’imprenditore come “chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
Civilisticamente, chiara è la definizione di azienda, che come giustamente dichiara la sentenza in esame è strettamente legata a quella di imprenditore, mentre altrettanto chiaro è che nella definizione di imprenditore non compare il fine di lucro, tanto che la dottrina ha elaborato la distinzione fra “lucro oggettivo”, ovvero “l’idoneità in sé a dare un profitto”, che è connaturata nel concetto d’impresa, dal “lucro soggettivo”, che è l’effettivo scopo di realizzare tale lucro e appropriarsene, che non è necessario perché vi sia attività d’impresa (oltre che gli enti non commerciali, ancor più chiaro è l’esempio degli enti pubblici, che certamente, come stabilisce l’art. 2093 c.c., possono svolgere attività d’impresa, e che per loro natura non perseguono certo scopo di lucro).
Passando alla normativa fiscale, l’art. 4 del d.p.r. n. 633/72 (“Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto”) stabilisce che “Per esercizio di imprese si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l’esercizio di attività, organizzate in forma di impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’articolo 2195 del codice civile”.
Di tenore sostanzialmente identico è l’art. 55 del T.U.I.R., il quale stabilisce che “Sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., … Sono inoltre considerati redditi d’impresa: a) i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma d’impresa dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c.”
Che le associazioni possano svolgere attività d’impresa e che per tale attività soggiacciano alla relativa normativa tributaria è dimostrato dal fatto che possono, anzi spesso debbono, essere titolari di partita IVA, e se (al di là delle specifiche agevolazioni fiscali) conseguono un reddito dall’attività svolta, su tale reddito debbono pagare le imposte con le regole (anche in questo caso, al di là delle agevolazioni fiscali) del reddito d’impresa.
Ma la materia nella quale l’imprenditorialità delle associazioni, sportive e non, è stata affermata senza se e senza in giurisprudenza, anche della Suprema Corte, ma è la materia concorsuale.
L’art. 1, comma 1, del Regio Decreto 267/1942 n. 267 (“Disciplina del fallimento …”) stabilisce che “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale”: solo le imprese sono soggette al fallimento.
E la storia dei fallimenti di associazioni, in particolare di associazioni sportive dilettantistiche, parte dal lontano 1955, con il primo fallimento di una a.s.d., dichiarato dal Tribunale di Monza, ed è da tempo pacificamente avallata dalla Corte di Cassazione che (fra altre) nella sentenza n. 6835/2014 richiama proprio la differenza fra lucro oggettivo e soggettivo, affermando che “Lo scopo di lucro – c.d. lucro soggettivo – non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, essendo individuabile l’attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell’attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi – c.d. lucro oggettivo”.
b/3 – Le conclusioni
Sulla scorta di tutto quanto abbiamo esposto qui sopra, ci pare che la possibilità di una a.s.d. di svolgere attività imprenditoriale sia pacifica, e che conseguentemente il complesso di beni, organizzazione, clientela che essa realizza/gestisce possa certamente essere qualificata come azienda, e come tale eventualmente ceduta (o affittata).
Ciò è certamente vero, fra l’altro, per quei sodalizi sportivi (tanti) che gestiscono in concessione impianti sportivi pubblici, la cui fruizione non può essere limitata ai soci o tesserati del soggetto gestore, e che, all’interno dell’impianto, gestiscono (anche) attività di somministrazioni e bevande, ristoranti, negozi di articoli sportivi o centri estetici, tutte attività il cui inquadramento imprenditoriale pare fuori di dubbio.
Ma che si tratti di attività imprenditoriale è altrettanto vero anche se la a.s.d. svolge solo attività sportiva (quindi eroga servizi) e lo fa solo nei confronti di soci o tesserati, se per tale attività riceve il pagamento di un corrispettivo e per fare ciò utilizza un complesso di beni (immobili e impianti, attrezzature, personale, ecc.) organizzati a tal fine.
E infine, anche “che detta cessione … avrebbe determinato la cessazione delle attività associative, che, viceversa, in base alle previsioni statutarie potrebbero cessare solo in virtù dello scioglimento” ci pare affermazione poco condivisibile: ben potrebbe una associazione realizzare un’azienda per svolgere la propria attività, e successivamente cederla (o affittarla) e proseguire la propria attività ripartendo daccapo, oppure acquistando o prendendo in affitto un’azienda di terzi (imprenditori senza o anche con scopo di lucro).
Ritorna in tale ultima ipotesi fondamentale la distinzione fra lucro oggettivo e soggettivo, che talvolta anche i verificatori ignorano: abbiamo visto più di un verbale nel quale, dal fatto che una a.s.d. avesse acquistato o preso in affitto un’azienda (di norma una palestra) da un imprenditore commerciale, sia stata disconosciuta a tale a.s.d. la qualifica di ente non commerciale.
Ciò seguendo l’assunto che se ha acquistato un’azienda commerciale, allora non è un ente senza scopo di lucro.
Ma si tratta di rilievi contestati con successo avanti gli organi della giustizia tributaria proprio in conseguenza della distinzione fra lucro oggettivo e soggettivo: una azienda è atta a produrre lucro oggettivo, ma la distinzione fra soggetto con scopo di lucro e soggetto senza tale scopo non deve basarsi sul lucro oggettivo bensì su quello soggettivo:
– l’azienda viene gestita per massimizzare l’utile, e trasferire tale utile all’imprenditore, e allora siamo in presenza di un soggetto che ha scopo di lucro
– l’azienda viene gestita con altre finalità, nelle quali l’utile realizzato, o molto più spesso il pareggio di bilancio, non sono lo scopo ma solo la condizione perché essa possa rimanere sul mercato e non crollare sotto il peso delle passività, e allora siamo in presenza di un soggetto senza scopo di lucro.